martedì 1 dicembre 2009

Vado, mi ammazzo e non torno Vs Non vengo, sopravvivo e re(si)sto



28 novembre 2009. Alta Marea second act. Ci si aspettava un’affluenza stimata intorno alle 20.000 unità. Eravamo 10.000, 15.000, davvero 20.000, o forse anche più? Difficile definire con certezza, ma di sicuro non si era in pochi. E talune vacanze raramente erano giustificate da una sorta di diffidenza, rispetto alla giusta causa. Non troppe quelle persone animate, come kamikaze, dall’amore della diossina, sentimento fomentato da un’antica ed atavica tendenza, tutta borbonica, al vassallaggio verso il Padrone tossico. Qualcuno, consapevole dell’oscura nebulosa che pende sul nostro futuristico cielo, ma in preda al timor panico di non poter nemmeno più distinguere i contorni di un possibile futuro, pena il licenziamento. Ma qualche argine pare essersi rotto, come testimonia il tessuto socio-culturale assolutamente eterogeneo e privo di colore politico che, di quel corteo, faceva parte (solite furberie rimestate a parte).
Un corteo è, per sua stessa natura, un corpo dinamico capace di snodarsi con agilità e sintonia delle parti in ogni suo movimento, rispecchiando fedelmente quel comune denominatore che avvicina le coscienze, limitandone la fisiologica forza d’attrito, senza, per questo, soffocarla sul nascere.
Un’entità priva di crisi, conflitti, antitesi, produce stasi, ed il mostro inghiotte gli inermi. Così, ben venga anche questa possibilità di un referendum, caldeggiata, tra gli altri, dal Prof. Fabio Matacchiera, di cui già parlammo qualche post fa, e che, oggi, torna con un comunicato stampa nel quale ribadisce una realtà dei fatti che, ancora una volta, ci fa sentire umiliati valvassini di un ingranaggio invincibile e frustrante.
In una città preda di devastanti e diversificate emorragie, il diritto di esprimere democraticamente la propria opinione dovrebbe essere parte integrante di un processo, altrimenti, destinato al fallimento. Non si discute sulla libera scelta del sì o del no, ma sull’opporre resistenza ad un’istanza nata dal basso, ben più vera delle numerose e tracotanti verbosità di talune primedonne pronte a vender l’anima, pur di liberare il proprio fumo (dannoso quasi quanto quello del colosso siderurgico) da quell’importante palco.  
Questo coro, che, sulla carta, all’unisono, urla contro l’Ilva ed il suo signore Non vengo, sopravvivo e re(si)sto può abbattere la cultura del Vado, mi ammazzo e non torno solo ricordando e custodendo il valore aggiunto della polifonia.

domenica 8 novembre 2009

Operazione recupero: "Un Palloncino Bellissimo"


In questa "domenica dello shopping", a metà strada tra l'autunno e l'inverno, complice l'attenzione di Marcello Nitti e la foto di Michele Tursi, torno a parlare di Lui, l' "Uomo del Palloncino Bellissimo".

Le previsioni meteo, negli ultimi giorni così altalenanti, mi spingono a regolare molti dei miei spostamenti sulla base di un tempo sorprendentemente cangiante.
La giornata si divide tra l’effimero sole del mattino ed una pioggia variabile, dalle goccioline intermittenti al fulgore dei lampi, del pomeriggio; la sera resta affidata ad una casualità non sempre prevedibile dal servizio meteorologico.
Domenica mattina, è tardi per andare al mare, malgrado un quadrato di miracoloso sole che durerà ancora per poco.
Giusto il tempo di andare a prendere un caffè in centro. Non c’è il deserto che mi aspettavo. Le strade non pullulano di umanità, come nelle giornate di primavera, ma qualcuno c’è, così, in ordine sparso.
Ancora qualche altro metro e ci sono. L’ingresso della Villa Peripato non è affollato, e posso farmi largo in uno spazio insolitamente libero, dove, ogni tanto, riecheggia il verso di un qualche volatile che si esibisce tra un albero e l’altro. Nel piccolo parco giochi non c’è nessuno, e ne approfitto per studiare la fattura di queste nuove giostrine, così diverse da quelle adorate della mia infanzia, invece spartane, usurate da lunghe file di bambini in religiosa attesa del proprio turno allo scivolo, in conflitto nel decidere tra la solitaria altalena o l’elefante a molla. Qualcuno fa jogging. Una coppia di anziani si riposa su una panchina. Al chioschetto c’è chi consuma un veloce aperitivo. Un silenzio surreale, sommesso, favorevole al relax. Attraverso la rotonda, e, mentre mi avvicino al laghetto delle papere, noto una macchia di colore vivissimo e quasi fluorescente, da cui proviene una voce che conosco da circa trent’anni. “Il palloncino bellissimo nella Villa Peripato..Signora, compri il pallone alla sua bambina, è domenica, è festa…faccia contenta la sua bambina..è divertente, signora, lo compri e la bambina sarà felice”. È lui, l’ “uomo del palloncino bellissimo”, croce e delizia della mia infanzia, quest’uomo di circa sessant’anni che, dalla Rotonda del Lungomare a quella della Villa Peripato, passando attraverso qualche mercato rionale, vende questa specie di incantesimo irresistibile. Provo a tornare indietro nella memoria, e mi chiedo per quale motivo un giocattolo così semplice, banale, effimero possa ancora oggi suscitare tanta emozione nei piccoli, e mi rendo conto che, a volte, il valore di un oggetto non risiede tanto nelle sue caratteristiche materiali, quanto nel sentimento che esso suscita, ed allora riconosco, nel palloncino bellissimo, una carezza affettuosa, una forma di sollecitudine, un interesse alla gioia dei bambini, che chiedono in dono prima di tutto un sogno, non sempre, immediatamente colto dai genitori.
Mi avvicino, la mamma è indecisa. Un euro è troppo per qualcosa destinata malamente a scoppiare o a volare. Il Signor Palloncino Bellissimo non se la prende, guarda la bambina e le chiede “Ma tu lo vuoi?”. Lei, timorosa della reazione materna, fa un lieve cenno col capo, ed allora lui glielo porge con un sorriso, e chiede solo 50 centesimi. La mamma cede. Missione compiuta: anche oggi il piccolo sogno di un bambino è salvo.

Foto di Michele Tursi

giovedì 1 ottobre 2009

Il Nuovo Impero dei Cinesi Falsi e Cortesi



Non per amor di minuzia. E nemmeno per facezia. Ma neanche per il gusto del particolare.
Solo perchè, di mezzo, ne vanno i bambini.
In tempi di crisi, anche un vestiario di buona qualità diventa un piccolo lusso. Se prima c'erano i mercati rionali ad offrire una valida alternativa, nel cambio di guardaroba, oggi l'egemonia dell'ambulante è sostituita da un nuovo trend: la cineseria applicata anche all'abito. Sino a qualche tempo fa, il made in China si infiltrava nei grandi franchising e nel commercio al dettaglio. Oggi, raggiunta una certa leadership nel risparmio, si estende al vero e proprio negozio.
Le vetrine di questi store pullulano di imitazioni capaci, a volte, anche di strappare un sorriso benevolo, per via di quella sfacciataggine maldestra nel voler, comunque, offrire l'alternativa al sogno altrimenti irrealizzabile di possedere l'oggetto del desiderio. Entrare in uno di questi punti vendita è un'esperienza surreale. Scarpe barocche, nei propri tacchi e vernici, borse in vilplastica (chè la vilpelle sarebbe troppo), decorazioni in paillettes finto swarovsky à go go, fantasie improbabili ed accostamenti cromatici mai visti prima. Camerini, d'estate, con i ventilatori alla massima potenza, piuttosto che condizionatori d'aria. E, su tutto, un odore peculiare, con cui la naftalina c'entra ben poco, o se esiste, quella prodotta in Cina, deve essere un composto di diversa ed oscura entità. Cinese anche la musica mandata in filodiffusione. Cinesi, naturalmente, gestori e commessi. Gran gentilezza e discrezione, per carità, ma, forse, tendenza a bypassare allegramente il rispetto di alcune, fondamentali norme di sicurezza, se è vero questo.
L'estro di un laccetto sulla magliettina dei vostri bimbi, potrebbe costituire, con la mancata laurea di alcuni pediatri e la facile predisposizione al rischio pandemia, un ulteriore fonte di pericolo.
Il Nuovo Impero dei Cinesi Falsi e Cortesi.

mercoledì 16 settembre 2009

Il crisantemo appassito sulla giacca lisa della democrazia


Taranto non sfugge ai crolli demografici, segnati da un'inversione di tendenza delle nascite. D'altronde, chi può permettersi di far figli, in una città marchiata a sangue dalla disoccuppazione? E chi, a cuor leggero, concepisce nuove vite, consapevole di una non fantomatica e paranoica, ma realissima possibilità di andare a finire i propri giorni nel futuro, più grande polo oncologico del Sud Italia (sarà vero, poi? e quanto ci costa questo triste primato?).
In tempo di paradosso, in cui accade l'esatto contrario di quello che la logica si aspetterebbe, di disgustoso trionfo di una barbarie affaristica ed individualista, di un'egemonia della carne, a dispetto di una, invece, auspicabile svolta che tiri dalla cima dei capelli l'italietta che affonda, il Teatro dell'Assurdo è pronto a mettere in scena una nuova pièce, la cui regia è affidata a Stefania Prestigiacomo, Ministro dell'Ambiente di questo Governo tronfio e scriteriato.
La Signora in questione, dopo l'acerrima battaglia degli ambientalisti tarantini, appoggiati dal Presidente della Regione Nichi Vendola, capitola, e l'1 luglio inaugura l'impianto ad urea dell'Ilva, una prima, timida speranza di liberazione da un destino potenzialmente mortale. Non la soluzione, ma almeno un paletto all'arroganza imprenditoriale ed al laissez faire delle precedenti amministrazioni locali.
14 settembre 2009: la Signora firma nove decreti VIA (Valutazione d'impatto ambientale) che (secondo lei e lei soltanto, tendenzialmente) favorirebbero lo sviluppo economico e ambientale del nostro paese. Tra i pareri positivi, ignorando bellamente l'opposizione della Regione Puglia, la centrale termoelettrica di Taranto, nella raffineria Eni (progetto Enipower). Parere positivo? Firma? Sviluppo economico ed ambientale? Nuovi posto di lavoro? Industrializzazione?
Crisantemo appassito, altro che fiore all'occhiello, visto che la realizzazione di questo aberrante progetto comporterebbe un ulteriore aumento delle emissioni di CO2, gas serra, di cui Taranto detiene il record nazionale amplificato dalla presenza dell’Ilva. 
Vien da pensare che, evidentemente, Taranto, agli occhi di questa gente, rappresenti nient'altro che una città mercenaria, priva di capacità d'intendere e di volere, un porto franco in cui venire a sfogare ogni capriccio estemporaneo, una riserva di manodopera operaia e nient'altro, una vecchia meretrice che si prostituisce a basso prezzo. Un locus senza dignità.
Dal Comitato per Taranto, partono già le prime forme di reazione e protesta, attraverso un comunicato stampa efficacemente al vetriolo, mentre Alta Marea invita a prepararsi ad una nuova mobilitazione come quelle del novembre scorso.
L'insonnia dello spirito non dovrebbe darci tregua, rendendosi urgente e foriera di una riflessione sulle nostre sorti future. O dobbiamo rinunciare per sempre al diritto di fare un progetto a lunga scadenza, senza temere che le nostre speranze vadano ancora una volta deluse?

(foto di  Fabrizio Castagnotto)

sabato 12 settembre 2009

Beni (in)Stabili

Prima domenica di settembre. Decido di provare il mio nuovo obiettivo a focale fissa. Coinvolgo un paio di persone che mi facciano da modello ed assistente. C'è vento. Vola di tutto. Compreso il mio vestitino ancora estivo. Ma c'è anche un pò di sole. 18 circa. La location scelta per questo abbozzo di fotografia urbana è il Centro Direzionale Beni Stabili.
Quando, da piccola, vivevo nel Rione Tre Carrare Battisti, con mia madre, percorrevo quasi quotidianamente questa piazza. I grattacieli si ergevano come spettrali e futuristiche cattedrali in un deserto di palazzi qualunque, anonimi, poco entusiasmanti. Pur nell'ingenuità dell'infanzia, mi rendevo conto di trovarmi di fronte ad uno spazio a sè, rispetto ad un'architettura urbana spesso miserevole, o pacchianamente sfarzosa, o, peggio ancora, fatiscente. Le veneziane che scorgevo dai piani alti mi davano la sensazione di trovarmi di fronte ad una piccola Manhattan, rimandando delle immagini vicine ai fotogrammi dei film americani, in odore di yuppismo, degli anni ottanta. 
A completare il quadro di nicchia metropolitana, il sottopassaggio di Piazza Dante, all'oggi ancora esistente. Immaginavo vite patinate, manager in Armani, segretarie bellissime anche con gli occhiali, vita d'ufficio dinamica e frizzante. E poi, di notte, al di sotto, auto lanciate in corsa verso una mondanità fluorescente e ridanciana.
Alcuni anni dopo, l'allocazione del mio Liceo in un altro quartiere, ed il cambio di residenza nella periferia della città, affondano nell'oblio il ricordo di quel luogo, sfocato ancor più dall'aver frequentato l'Università in un'altra città
Il ritorno a Taranto e l'uso dell'automobile, giocoforza, mi inducono ad utilizzare Via Dante Alighieri e, quindi, passare dinanzi e al di sotto del Centro Direzionale Beni Stabili. E' di nuovo curioso amore.
Ma misto a rimpianto, perchè, oggi, ciò che resta di quell'isola di presunto edonismo è il comando della Polizia Municipale, la biblioteca "Domenico Acclavio", la sede provinciale della UIL e il comando provinciale della Guardia Forestale.
Io, però, cerco di raccogliere i cocci di quel passato, senza tralasciare le estreme, eppur intense, sfumature dell'oggi, ed allora isolo una porzione dei gloriosi grattacieli, che mi siano da sfondo, e  scendo giù, senza omettere stickers e murales che, a modo loro, rinnovano un processo di comunicazione per troppi anni ridotto al silenzio dal coma profondo nel quale cadde il Comune di Taranto.
Resta un'essenza opaca, ma viva, che, a guardare ed "ascoltare" attentamente,  sarebbe disposta ancora a mettersi in gioco, restituendoci il nostro sogno d'urbanesimo post moderno.

martedì 1 settembre 2009

Prof. Biagio Lorè R.I.P.

La morte. Nebulosa lontana, inavvicinabile, apice dell'umana tristezza. Deprivazione d'essere e furto del poter dire. Invincibile, e molesta. Imprevedibile e quindi scaltra. Perchè sottrae al Sè ed all'altro. E, di pari passo con la consapevolezza, la percezione si fa pesante come ghisa, di lacrime d'acciaio.
Ho conosciuto il Prof. Biagio Lorè nel 2003, presentandomi alla selezione per il Servizio Civile Volontario all'Unione Italiana dei Ciechi. Allora, eravamo ai primordi di quest'importante passo nel progresso sociale del Governo (uno dei pochi provvedimenti "illuminati" mai presi prima), e c'era da scegliersi l'Ente presso cui far domanda. Avevo 25 anni, laureata da 2, non confusa, ma indecisa sul da farsi. Vado a visitare un'Arci a Grottaglie, ma ciò che vi trovo è una stanza spoglia e polverosa, con 4 anziani che giocano a scopa. Il posto mi comunica un senso di passiva rinuncia che, immediatamente, mi sconforta. Ho voglia di spendermi. Ho voglia di pervenire ad una qualche forma di concretezza. Torno a casa e scorro nuovamente l'elenco: Unione Italiana dei Ciechi Onlus, Sezione Provinciale di Taranto.
Ho deciso. Dal colloquio emerge un'affinità di studi con quest'uomo completamente privo di vista, ma imponente ed importante nell'aspetto, dal vocabolario forbito eppur mai saccente, dalla voce cava ma mai disturbante, dall'empatia gentile e mai invadente. Nella graduatoria, sono la prima della lista, su decine di candidate. Sono felice, e non per vanità, ma perchè, senza che nessuno mi abbia spinta, sono lì, compresa e stimata. Sono la sua collaboratrice per quasi un anno. Durante le nostre piacevoli conversazioni, emerge un ricordo di oltre un ventennio. Il Prof. Lorè mi chiede se qualcuno, nella mia famiglia, si chiami Matilde. Rispondo di sì. Matilde era mia zia. Mi chiede di lei, andando a ritroso e raccontandomi di questa brillante e complessa studentessa di molti anni prima. Gli dico che è deceduta nel 1984, a 27 anni, di cancro. E' una coincidenza bella e triste, che mi fa pensare nulla accada a caso e che questa prima esperienza "lavorativa", forse, sia stata mediata da un angelo.
Collaborare con il Prof. Lorè è fonte di inesauribile stimolo a comprendere l'altro ed esercitare al massimo la propria volontà, piuttosto che trascinarsi stancamente durante l'esistenza. Il Professore, malgrado una cecità totale acquisita per un grave incidente domestico occorso in tenera età, è una persona di gran forza interiore, volitiva, capace di impegnarsi su più fronti: insegnante, assessore e consigliere, tiflopedagogista, ed anche pianista. Marito, padre e, non da troppo tempo, nonno.
Il nostro rapporto prosegue anche dopo il civile, durante il mio servizio in qualità di educatrice presso lo stesso ente, in cui  lui è il Coordinatore del progetto nel quale vengo inserita.
Le riunioni mensili sono lunghe e complesse, e non per amor di prolissità, ma perchè il Prof. Lorè ha il dono dell'ascolto e del problem solving per ogni singola istanza esposta, capta al volo le esigenze altrui (le nostre e quelle dell'utenza), lotta per sbrogliare la fastidiosa matassa di una burocrazia sempre pronta ad intralciare il servizio offerto all'utenza.
L'ultima telefonata del luglio scorso. Ho un dubbio postomi dalla mia utente, e lo cerco. Sua moglie mi dice che è al piano di sotto, a tener compagnia al fratello malato. Ci risentiamo prima di cena. Tutto risolto, come sempre, con l'augurio di buone ferie.
Lo aspettavo io, in questa prima settimana di settembre. Sarebbe rientrato a lavoro ieri. E ieri sera è morto. Un ictus. Il pensiero, quella mirabile lucidità, si appanna sino a scomparire. Per sempre.
Quando mi ha chiamato il Segretario Sergio, dopo pranzo, pensavo si trattasse di uno scherzo, scambiandolo per il mio amico avvezzo alla goliardia telefonica. O forse, dentro di me, senza saperlo, rigettavo da subito? "Mimma, non hai saputo cosa è successo?" Rispondendo di no, già avevo capito.
Purtroppo.
Resta una foto in b/n, scattata in analogico, senza rumore, durante una riunione. Il viso è disteso ed attento, le mani giunte,  il colletto della polo in perfetto ordine. Come sempre.
Perdo un maestro.

giovedì 27 agosto 2009

Antonella è amareggiata

L'affacciarsi del XXI secolo ha sancito il mio progressivo distacco da una stagione che, un tempo, amai.
Negli anni '80, era consolidata abitudine lasciar deserte le aule delle scuole elementari (quando ancora c'era il maestro unico e volavano schiaffi non troppo teneri) entro il 31 maggio. Quella manciata di giorni di giugno veniva rifiutata a priori, perchè già programmata per il trasloco al mare, andando avanti sino al penultimo giorno di vacanza e presentandosi al primo giorno di scuola con la sfrontatezza di una piccola selvaggia, reduce dalle avventure di Robinson Crusoe. 100 tuffi non bastavano, e la litania quotidiana era "Papà, dai...l'ultimo", mentre il povero genitore minacciava, dal belvedere, l'abbandono. Al mare due volte al dì, aspettando con ansia che la siesta famigliare avesse termine per tornare al piccolo parco giochi acquatico. Quei sandaletti in gomma cambiavano colore ogni anno, rendendo i piedini come piccole tartarughe color caffellatte. La vanità infantile non andava oltre qualche prendisole in ciniglia, e l'ingenuità si crogiolava in innocenti topless da settenne. Poi c'erano i polaretti, nel pomeriggio, e di notte le zanzare erano ancora zanzare, piuttosto che sanguinari killer. Lo scirocco aveva il pregio di vivacizzare il mare, invitando a spericolatezze tra i cavalloni, piuttosto che prostare l'animo ed il corpo in un costante senso d'asfissia e di spossatezza.
Quando si rientrava in città, silenzio e lacrimuccia, sinchè non arrivava Natale, carico di doni e promesse. E dopo l'inverno, già ad aprile, un nuovo fermento.
Vent'anno dopo. Una laurea conseguita precocemente, ed il caso, impastato con un q.b. di libero arbitrio, mi ancora qui. Tendenzialmente democratica, ho sempre aberrato l'odio dei compatrioti allocati da Roma in su verso noi, invece, umidificati dallo scirocco del Mediterraneo. 
Però ho abbandonato un attimo le afose lande natie per il piacere del viaggio, mi sono confrontata più volte con amici abituati al gelo, non ho mai indossato un paraocchi, ed ho vissuto, con sempre più naturale acquisizione di consapevolezza, il mio territorio. 
Non sono un'eroina romantica che, demagogicamente, abbraccia la causa della secolare "questione meridionale" e decide di restare per amor della sua terra.
Sono innamorata, all'oggi, soltanto della mia famiglia e del mio compagno. La mia relazione con questo territorio è, da tempo, compromessa. C'è stato un tempo, quello delle false speranze, delle opportunistiche promesse, dell'impegno profuso in nome di un'appartenenza mai rinnegata, in cui il nostro rapporto era complicato. Ma, attualmente, questo rapporto è freddo, come quello di una figlia incompresa e sottovalutata. Come me, tanti. Come Antonella, anche.
Ma la storia di Antonella, da Padova, tornata in punta di piedi, quasi da turista, con, forse, la timida illusione di poter ricucire uno strappo durato 25 anni, non ha un lieto fine. Ed allora mi viene il sospetto, e non per amor d'apocalisse, che qui, nei secoli dei secoli, la quotidiana commedia non sia altro che la facciata invitante di una più incalzante tragedia sociale e culturale.
E non per amor di nichilismo.

martedì 18 agosto 2009

La Torre di Lucia II



E le stelle caddero (non troppe, la crisi incombe anche nel Regno dei Cieli), e poco mutò.
Sarà per quel sottile, ammaliante fascino dell'apparenza, per cui basta ricucire malamente dall'interno, per poi mostrare una superficiale beltà fragile al primo, esuberante venticello?
Qualche nuovo cartello lì, un telo qua, striscioni di generosi sponsor là, ma la muffa ingigantisce, indifferente al genere umano, i rami secchi giacciono al sole, gli appositi raccoglitori per i rifiuti chiedono d'esser svuotati. Ed intanto, al "punto ristoro", il palinsesto del divertimento continua a traboccare, con tanti applausi&frizzi&lazzi, il parcheggio non subisce sconto alcuno, l'auto-celebrazione nemmeno. Ed io pago. Ma la manutenzione del Parco (fine prioritario, sulla carta), continua a non essere compresa nel prezzo.

domenica 9 agosto 2009

La Torre di Lucia






Andando al mare...

Avevo già dichiarato altrove il mio amore per le scogliere. La sabbia, di questi tempi, è più sporca che mai. Il contatto con le piante dei piedi, spesso, equivale ad una camminata sui carboni ardenti, alla maniera di Giucas Casella con Mino Damato. Solitamente, poco dopo la battigia, a luglio ed agosto, l’acqua, per qualche metro, assume un colore giallognolo poco invitante. Molti Super Santos, racchettoni, bambini piagnucoloni, frigoriferi mobili gonfi d’ogni genere alimentare, e tanto rumore (per nulla). Ecco perché scelgo la roccia. Mi infilo un paio di ciabatte studiate per l’occasione, porto con me l’indispensabile (acqua minerale, prima di tutto), qualcosa da leggere e sono pronta. Scelgo la scogliera compresa tra Saturo e Porto Pirrone, al centro tra le due spiagge, così brulicanti di gente, da sudarne solo a guardare. L’ubicazione del mio locus è problematica, mi costa una lunga camminata tra automobili, sdraio, comitive di adolescenti esuberanti, in alternativa ai 2.50 euro quotidiani del parcheggio, ma ne val la pena quando c’è l’adorata tramontana che tutto distende e rinfresca. Per arrivare al mio scoglio preferito, utilizzo l’entrata del Parco Archeologico di Saturo. E vorrei le sorprese finissero lì. Ma devo, ancora nella prima decade di questo agosto, essere testimone forzata di un colpo d’occhio non piacevole.
A partire dall’ingresso, devo fare attenzione a non affondare il mio piede in un tombino scoperto, su cui continua ad ingigantirsi una mostruosa muffa arancione. Procedo, ed il sentiero che mi condurrà al mare, immerso in un’auspicabile pineta, si presenta, invece, tristemente abbandonato a sé, con i residui rami secchi, lasciati lì da un giardiniere forse svogliato e dormiente. Se alzo gli occhi al cielo, i faretti che dovrebbero illuminare la Villa Romana, di cui riesco a leggere con fatica brevi note su di un cartello corroso dal tempo, sono per lo più divelti o mancanti. Ad alcuni metri dalla meta, mi trovo di fronte alla Torre Costiera, costruita dagli Aragonesi nel XVI secolo D.C. La maestosità ne viene compromessa da alcune, profane scritte sentimental-popolari (“Lucia ti amo”), che campeggiano da ogni lato. Può bastare? Non proprio. Restano delle palizzate semi-distrutte, che sicuramente non possiedono la facoltà dell’auto-manutenzione. Come tutto il resto, d’altronde. Eppure le serate all’Art Cafè, il punto di ristoro del Parco, mi sembrano copiose di eventi e colme di utenti. I drinks non hanno prezzi molto popolari. Se io non desidero nulla, devo comunque giustificare con un ticket la mia presenza all’interno del localino. Ed allora, se la Pubblica Amministrazione promette e non mantiene, proprio non viene fuori un gruzzoletto che permetta di coprire i tombini, raccogliere i residui secchi della pineta, comprare nuovi faretti, riparare le palizzate, sostituire i cartelli sbiaditi e cancellare i messaggi d’amore dalla Torre Costiera? E qualche manica rimboccata, insieme ad una piccola forma di auto-tassazione della gerente Cooperativa Polisviluppo (che si occupa anche del suddetto punto ristoro) pesa come una delle settime fatiche di Ercole?
Aspettiamo che cadano le stelle per emettere l’ardua sentenza.
P.s. Se solo una singola parola costasse quanto un mojito…

sabato 1 agosto 2009

Il gioco di ruolo dell'apocalisse


Con questo nuovo articolo, lascio emergere un ulteriore punto di vista sulla recente inaugurazione dell'impianto ad urea all'Ilva, espresso dal Prof. Fabio Matacchiera.

Il 25 luglio scorso ricevo un comunicato stampa dal Prof. Fabio Matacchiera, che ricordo dai tempi della gloriosa Associazione Caretta Caretta, intitolata all’omonima specie di tartaruga marina tipica del Mar Mediterraneo, ed ormai prossima all’estinzione.
A quei tempi frequentavo il liceo, ma ricordo con piacere l’impegno sincero e costante di questi ambientalisti, caratterizzato da uno spirito per nulla esibizionista e nemmeno legato a certe logiche di auto-affermazione quali reali moventi della propria battaglia contro gli usurpatori del patrimonio naturale della nostra città.
È passato qualche anno. Taranto ha compiuto il giro di boa dal XX al XXI secolo senza scuotersi da quella forma di inerzia atavica, storica, retaggio di geni borbonici, forse, che tanta pigra incoscienza hanno favorito. Amministrazioni di diversi colori. Millantate risalite. Paradossali e sconcertanti discese. Ed un unico problema, lì, immobile, a sedimentare. Sino a che una qualche lungimiranza politica, sostenuta dall’avvento di un movimento d’opinione nutrito dalla potenza del social network, non conduce ad una svolta, il 1° luglio scorso.
Passano poco più di 20 giorni, e perviene, puntuale, quest’analisi del Prof. Matacchiera, il cui comunicato stampa recita: “LA LEGGE ANTIDIOSSINA POTREBBE NON ESSERE UN VERO SUCCESSO”. Anzitutto viene rilevata l’ambiguità della “legge antidiossina”, sicuramente un primo passo verso una possibile soluzione della vicenda, ma, sotto alcuni aspetti interpretativi, poco chiara per il comune cittadino. Il Prof. Matacchiera sottolinea un annoso e nemmeno troppo latente problema di contiguità rispetto al centro urbano, al cui proposito dice: “Molti nostri concittadini pensano che ora la questione si sia risolta definitivamente. Niente di più inesatto. Non voglio demoralizzare quanti già hanno cantato vittoria ed hanno affermato convinti ce l’abbiamo fatta, ma solo chiarire determinati aspetti del decreto legge, che comunque rappresenta una svolta importante, anche se non decisiva, nella lotta contro l’inquinamento, che non sarà vinta finchè l’Ilva sarà in funzione, considerando il fatto che il colosso siderurgico non potrà mai godere di compatibilità col contesto urbano, data la sua eccessiva vicinanza ad esso”. Sul fatto che l’Ilva, effettivamente, disti davvero una manciata di metri dal centro abitato (e martoriato), nello specifico, del Rione Tamburi, non ci piove. Senza andare a scomodare le solite, scoraggianti, luttuose liste di morti per cancro, basti, per chiunque di noi, soffermarsi a guardare il colore delle abitazioni e degli arredi urbani, oppure poggiare un dito sulle lastre di marmo dei nostri poveri defunti, al Cimitero di San Brunone.
A conforto della sua tesi, il Prof. Matacchiera attinge anche a specifici riferimenti legislativi: “Facendo riferimento, infatti, alla legge di Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) dell’8 luglio 1986, numero 349, un impianto di siffatte dimensioni è da considerarsi inammissibile sia per quanto riguarda l’aspetto ecologico che per la sicurezza cittadina (si pensi ad eventuali incidenti, esplosioni, incendi che potrebbero coinvolgere facilmente i quartieri limitrofi)”. Certo, dal piccolo isolato incendio a qualche centinaio di metri di distanza, sino alla scomparsa di interi quartieri. C’è, volendo, da non dormirci serenamente.
Insieme con la diossina, a concorrere a quest’ipotetica apocalisse a portata di mano, vi sono altre sostanze: PCB (policlorobifenile), ARSENICO, MERCURIO (di cui il mare di Taranto, nello specifico il mar Piccolo, è il più inquinato del Mediterraneo, secondo l'Arpa), IPA (idrocarburi policiclici aromatici). E, tra gli IPA, i più pericolosi BENZOAPIRENE, CRISENE, FENANTRENE, l’ANTRACENE, l’IDENO - PIRENE, FLUORANTENE, BENZOPERILENE, BENZOFLUORANTENE, BENZOANTRACENE, sostanzie cancerogene e mutagene, PIOMBO.
Un bel beautycase pieno di trucchi insidiosi, volendo usare una metafora indorata, con la conferma, attraverso il registro INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e delle loro Sorgenti), del 21 ottobre 2008, che a rendere Taranto città più inquinata d’Italia non vi sia solo la diossina, ma anche le sostanze di cui su. E, se da un lato, si attende il 21 dicembre 2010 affinchè le emissioni siano ridotte dai 2,5 mg attuali, grazie all’impianto ad urea, agli agognati 0,4 mg, dall’altro, attraverso il dossier di Carlo Vulpio ne “La città delle nuvole” e un comunicato di Peacelink dell’ottobre 2008, emerge che dai “camini della diossina” possano fuoriuscire anche sostanze radioattive. “Ne sarebbe responsabile il processo di sinterizzazione in un impianto di agglomerazione. Il minerale di ferro trattato nell’impianto di agglomerazione contiene infatti tracce di uranio. Tra le sostanze che potrebbero essere emesse dai camini dell’Ilva ci sono quindi anche il Piombo – 210 ed il Polonio – 210. Il polonio è un elemento tossico, altamente radioattivo e pericoloso da manipolare, persino in quantitativi dell'ordine del milligrammo o meno. Le particelle alfa che emette viaggiano per pochi centimetri nell'aria e sono facilmente schermabili, ma in caso di penetrazione nell'organismo (ad esempio per inalazione o ingestione) possono danneggiarne i tessuti” specifica il Prof. Matacchiera, che conclude: “La legge “antidiossina” rappresenta quindi solo il primo, breve passo lungo il cammino della risoluzione dei problemi dell’inquinamento a Taranto. O forse il modo per dare più tempo all’Ilva di continuare la sua produzione il più possibile”.
E a noi, cosa resta da fare? Scegliere il personaggio a noi più verosimigliante, nel gioco di ruolo dell’apocalisse? Oppure approfondire gli studi in proposito, mettendo da parte la nostra presunta avversione verso la matassa scientifica?

(foto da Massafra.altervista.org)

giovedì 30 luglio 2009

Operazione recupero: Le pettole di Riva

Avevo scritto questa breve nota per segnalare l'importante reportage di Carlo Vulpio sul mastodonte siderurgico di Taranto.

Le nuvole son belle. Piace pensare che, da grandi, quando prenderemo l’aereo, apriremo il finestrino per staccarci un pezzo di quello zucchero filato sicuramente più squisito di quello acquistato dall’omino del luna park, qui sulla terra.
E le nuvole, da noi, hanno la forma delle pettole, frittelle dolci/salate che inaugurano le tavole pre-natalizie e che, miracolosamente, all’alba di S.Cecilia, vagando per la città vecchia, in attesa della Banda, qualche ristoratore frigge impavido nel gelo, di fronte al mare.
Ma le nuvole possono essere, qui come in qualche diverso altrove, minacciosamente grige e gonfie di dolore, come nuovi vasi di Pandora.
Carlo Vulpio, ex giornalista del Corriere della Sera, ed ex docente presso il Corso di Laurea in Scienze della comunicazione pubblica, sociale e politica dell’Università Statale di Bologna, partendo da un’immagine apparentemente poetica, si addentra nella nebulosa oscura meglio nota come Ilva, per aggiungere al nodo cruciale, costituito dal conflitto salute vs occupazione, nuove, preoccupanti verità. Non è bello imparare coattamente il disincanto, rispetto allo zucchero filato ed alle pettole, ma è forse necessario.

mercoledì 29 luglio 2009

Operazione recupero: (Ri)nati il 1° luglio?


Ho scritto quest'articolo, che recupero per una sorta di dovere sociale e civico, nel giorno dell'inaugurazione dell'impianto ad urea all'Ilva. Il titolo è a metà strada tra la provocazione e la necessità di comprendere la reale, positiva entità dell'evento.

La storia è nota. Una favola di pettole grigie ad offuscare la nitidezza del cielo, di strani, inquietanti odori generalmente notturni, di una vocazione medica a divenire polo d’eccellenza oncologico, per via di una moria che va a falcidiare il tessuto demografico della città, di un patimento da cui soltanto negli ultimi anni si cerca di venir fuori. E per chi c’è dentro, storie di ordinario mobbing, morti bianche, minacce di licenziamento, cassa integrazione, ed il costante fiato sul collo di un prezzo da pagare per la sopravvivenza attraverso la merce di scambio dell’umiliazione e gli spiccioli di una costante insoddisfazione.
Quando di lavoro si muore dentro e fuori dalla fabbrica.
L’afflato politico non c’entra, è una questione di fondamentali diritti umani, sanciti da una miriade di trattati internazionali, e violati per anni, giocando l’astuta carta della disoccupazione.
Taranto è una delle città più inquinate d’Europa. È una tortura psicologica esserne consapevoli, ma è il punto di partenza per una reazione collettiva che ha avuto un ruolo di vitale importanza per quel processo capace di portare ad un dato di fatto.
Oggi, alle 10.30, il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, alla presenza del Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo (malgrado un suo iniziale atteggiamento di contrasto rispetto ad una fattiva risoluzione del problema) inaugura l’impianto ad urea che servirà a contenere le emissioni di diossina, la sostanza killer sinora dispersa in concentrazioni elevatissime nella nostra città, ed oggetto del reato da cui è partito il movimento di sensibilizzazione popolare risultato determinante nell’applicazione della bramata Legge Regionale Anti-Diossina, provvedimento capace di aggirare ogni residuo tentativo di furberia da parte del patron Emilio Riva, che, nell’ottobre scorso, cercava di prendere ancora tempo, provando a posticipare la realizzazione degli impianti di un anno.
L’emozione è forte, e la partecipazione di alcune delle Associazioni che, il 29 novembre scorso, data topica, densa di significato per ogni abitante di Taranto, hanno dato vita alla manifestazione organizzata dal movimento “Alta Marea”, momento di raccordo collettivo nel marciare contro il maggior inquinatore della città, è viva anche stavolta. Alle 9.45, infatti, di fronte alla Direzione dell’Ilva di Taranto, ci sarà un sit in cui Ail, Comitato per Taranto, PeaceLink, Legambiente, Wwf ed ogni libero cittadino porranno l’accento sull’importanza di un monitoraggio costante, da svolgersi 24 ore su 24, scongiurando ogni pericolo di possibile gioco delle tre carte da parte di Riva.
1 Luglio 2009. Dopo un travagliato concepimento, stiamo per ri-nascere?

domenica 26 luglio 2009

Operazione recupero: I ♥ Pessoa


Questo articolo è dedicato ad un'occasione mancata di confronto e scambio interculturale con un poetico turista portoghese, malamente aggredito nel Borgo Antico di Taranto.

Esistono, al mondo, diversi tipi di viaggiatori. Gli amanti della terra, che restano fedelissimi alla ferrovia; i tipi d’aria, con le dita costantemente sulla tastiera alla ricerca di un incredibile low cost; i nostalgici di Love Boat, bramosi di navigare in placide e super-accessoriate acque e di indossare l’abito sberluccicante per il valzer col capitano; gli uomini-camper, orgogliosamente padroni del proprio viaggio, mediato solo da una cartina stradale; gli stakanovisti dell’auto, chiusi nei propri abitacoli, con i condizionatori a palla, lanciati in un’instancabile corsa verso mete vicine e lontane.
I mezzi di locomozione sono molti. Le possibili interazioni e combinazioni geografiche anche. Quando, nel 2001, sono stata a Lisbona, osservando un tessuto sociale multi-sfaccettato, colorato, denso ed intenso, sospeso tra semplicità e complessità, sfuggente e fascinosamente pulsante, mi sono chiesta se ci potesse essere una qualche forma di affinità con noi italiani, parenti alla lontana, pro-cugini per il tramite dei vicini cugini spagnoli. Mi sarebbe piaciuto somigliare ai portoghesi, capaci di vivere la post-modernità custodendo, al contempo, un passato di marinara gloria, a differenza della nostra facile tendenza all’oblio, lo stesso con cui ci si lancia verso nuove sfide seguendo l’immediata strada del rinnegare, piuttosto che del coltivare.
Anch’io desidererei cenare serenamente al fresco del centro storico, e poi, dopo, andare a bere un fruttato liquore in distilleria. Ma devo farlo con circospezione, perché il mio Borgo Antico, a volte, è cattivo (o in-cattivito?).
Il mio scrigno sentimental-reazionario, improvvisamente, è dischiuso da un accadimento singolare, e desolante. Leggo di quest’uomo portoghese, che immagino esile, pacificato con se stesso e con il mondo, neo-romantico e commovente nella scelta di una bicicletta quale mezzo di locomozione, indipendente dalla velocità dell’aereo e dalla comodità del bancomat. Quest’omino che, miracolosamente, si trova nella mia città, e che, sì, avrei voluto incontrare sulla mia strada, per il piacere dello scambio e per un’istintiva forma di empatia. Ed invece mi sento spiazzata, delusa, umiliata dalla brutalità di un atto compiuto verso chi giunge in pace, e può rappresentare occasione di stimolante confronto transnazionale oggi, come non mai, così necessario ad una forma di auto-consapevolezza delle proprie potenzialità e alla lotta contro il costante pericolo della rassegnazione.
Vorrei andare in Ospedale e scusarmi con lui, chiedere venia della miseria interiore che depreda, figlia di una povertà economica, a sua volta partorita dall’indifferenza culturale, spiegargli che quell’incantesimo di miracolosa bellezza che si verifica, di sera, sulle banchine della discesa Vasto, rivela, a volte, lati oscuri, ferini, di antica violenza. E se lui mi chiedesse “di chi è la colpa?”, piuttosto che stilare un lunghissimo elenco di amministratori, enti pubblici e privati, poteri illeciti di ieri oggi e domani, a testa bassa risponderei: “della nostra storica riluttanza ad amare ciò che ci appartiene”.

(foto da vooila.com)

sabato 25 luglio 2009

Operazione recupero: Lo stecco del maxistecco


Inizio dal recupero di alcuni degli articoli ai quali tengo di più, scritti per quella gente un pò disattenta.
Qui, ad inizio stagione, rifletto sul preannunciato degrado delle spiagge tarantine e sul paradosso di due mari ed una solo bandiera blu.

Oh, ma che bella notizia!
E allora? Dovremmo gioirne no? Certamente, ma la bella stagione è anche questo:
Secchi colorati, pannolini sporchi, bottiglie di vetro ridotte in mille pezzi, falsamente invisibili cellophane che avvolgono i pacchetti dei crackers (si cerca di essere light anche nello sporcare), kleenex ambiguamente usati, coppette di coppa del nonno, stecchi di maxistecco, lattine tagliate in modo che rendano bene il loro lavoro (come minimo recar segni per i quali passare almeno un mese con gli arti fasciati), frammenti di oggetti non facilmente identificabili ma ugualmente vistosi ed ingombranti e, sì, chi più ne ha più ne getti.
Giusto per amor d’oggettività: km di litoranea decantata, agognata, idolatrata ed una sola spiaggia a meritar la Bandiera Blu? Annosa querelle, questa: colpa degli amministratori che, da deformazione professionale, guardano e si accontentano (e pretendono che ci si accontenti un po’ tutti) solo della superficie oppure di tutti quanti noi, fruitori talmente liberi da disporre delle spiagge come invitati ebbri ad un dionisiaco banchetto (tanto ci saranno pure gli inservienti degli dei a ripulire per noi)?
L’importante è apparire.
Il paradosso di posseder due mari, ed una sola, negletta bandiera blu.

giovedì 23 luglio 2009

La libertà bianca dell'unicorno


Qualche mese fa. Mi permetto di essere felice, perchè, evidentemente, qualcuno sa guardare oltre la coltre eterea della rete, e comprendere che le parole hanno un peso non sempre volatile, intuendo che, forse, paradossalmente, qui tutto lascia tracce ed è meno effimero di un foglio di carta.
Inizio a scrivere con entusiasmo e positiva motivazione in qualità di local blogger per il progetto-pilota di Virgilio in 15 città italiane. Tra cui, sì, anche la mia negletta e complessa Taranto.
Ci sono delle linee guida, all'apparenza nemmeno troppo stringenti, per esempio, se è il caso, posso anche superare le 2000 battute che mi sono massimamente concesse.
Non è un problema, solitamente non sono troppo prolissa. Inizio con entusiasta dedizione, cercando, tra le pieghe del quotidiano, ciò che sfugge alla stampa ufficiale, oppure, al massimo, va a finire in un trafiletto di poco conto. Cominciano ad arrivare i primi commenti. Bene. Vuol dire che, forse, i risultati son prossimi a venire. Ma, inaspettatamente, mi giunge anche il primo richiamo dal "capo".
Il mio stile è considerato "alto", troppo dotto rispetto alle intenzioni iniziali del contratto.
La mortificazione è a portata di mano. Ancora una volta mi metto in discussione (ma è la mia regola aurea), mi chiedo se davvero quel gusto della lingua, quell'imbastire mondi con le parole, quel piacere che è giocoso non mi tenda trappole, in fin dei conti.
Non potendo essere mai assolutamente obiettivi con noi stessi, decido di domandare in giro, di "testare" la comprensione dei miei post, sottoponendone la lettura a diversi target di persone.
Tutti comprendono. E tutti sono esterrefatti.
La società mediatrice cerca di negoziare, si va avanti per un pò, con il paradosso di un "capo" che rigetta, al cospetto di lettori entusiasti e statistiche (visto che la si metteva anche sul piano delle statistiche) confortanti.
Bene, io proprio non ce la faccio a strangolare lo spunto sul nascere. E soprattutto ad impoverire volutamente il mio modus operandi.
Ancora qualche giorno, e nebulose di incertezza.
Ed infine la risposta. Evidente incompatibilità non solo culturale, ma anche umana, direi, tra me e Virgilio.
Ed ora? Come unicorno alato, bianco, puro, libero e pacificato, non ingaggio guerre fini a se stesse, ma decido di abbandonare quel tetto stretto ed angusto, e apro casa, con tante finestre, spazi ampi, pochi essenziali arredi, piccoli gingilli di una vita qui. Dove, finalmente, torno padrona della mia gioia di scrivere e condividere, secondo dei parametri di libertà ed onestà intellettuale, validi per me stessa e per chi deciderà di seguirmi.
Chi, poi, ha non solo occhi, ma anche cervello per apprezzare la volontà di informare senza imbavagliare, e cuore per leggere tra le righe quanto il lavoro di redazione sia una diversa forma di educazione al criticismo, allo scetticismo (quando necessario), alla consapevolezza, piuttosto che atto di auto-celebrazione, servilismo, strumentalizzazione di un qualche potere, si avvicina di sicuro alla lettura più efficace.
Nient'altro da aggiungere che, nel bene e nel male, non si racconti da sè.
Io resto qui.

(foto di Daltramontoallalba)